I DOLCI DELLA PASQUA
Giuseppe Coria
Mmiàti
locchi chi vìttiru Pasqua, si diceva un
tempo: beati coloro che sono arrivati vivi - e felicemente
- alla nuova Pasqua. Festa sentita, desiderata, gioiosa,
nonostante lintermezzo del Venerdì Santo con
le relative processioni, i misteri, le sacre
rappresentazioni.
Verrà infatti il Sabato
Santo - annunciato dalle campane a festa - che perentoriamente
ci invitano alla pace, alla serenità, alla contentezza
(non per nulla dice il proverbio: èssiri cuntèntu
comu na Pasqua). Certo non è cosi per tutti:
qualche sfortunato avrà in questo periodo i suoi
contrattempi e il detto vèniri la Pasqua di joviri
a unu, ossia il sopraggiungere la Pasqua di giovedì,
ne sta ad indicare la scombinata condizione. Se qualcun
altro avrà addirittura subìto delle disgrazie,
si dirà fici na mala Pasqua (proprio come
accadde al povero compare Turiddu di buona memoria). Ma
una cosa è certa: le campane del Sabato Santo invitano
tutti quanti alla tavola, per degustare una eccezionale
quanto tipica gastronomia. Al contrario di altre festività,
le cui tradizioni si vanno man mano perdendo, alcune abitudini
legate alla Pasqua sono rimaste immutate nel tempo: tra
queste luso di cucinare lagnello, di offrire
e mangiare uova e la preparazione di una grande varietà
di dolciumi. Insomma un gran lavorìo di cucina che
giustamente ha fatto sorgere il detto avìri cchiù
chiffàri di lu furnu di Pasqua.
Lagnello
e le uova compaiono anche nelle pasticcerie. Le vetrine
si riempiono di picureddi, pecorelle di pasta reale,
la cui posa è divenuta ormai un classico: sdraiate
su un fianco sopra un prato verde disseminato di confettini
multicolori, con una banderuola rossa, simile a quella che
nelliconografia sacra è in mano a San Giovanni,
infilzata sul dorso. Le uova, di cioccolata e prodotte industrialmente,
custodiscono la sorpresa facendo bella mostra
di sé infiocchettate e rivestite di coloratissima
carta. Ma in quasi tutta lIsola, nelle famiglie che
osservano ancora le tradizioni, si dispongono a tavola uova
sode colorate e si preparano i pupi cu lova,
panierini di pasta da pane che contengono, immersi o affioranti,
delle uova, spesso colorate. Le forme di questi dolci casalinghi
sono tantissime e spesso curiose come i nomi con i quali
vengono indicati: aceddi cu lova, panarina,
cuddùra, cudduredda e così via.
Notevole, per varietà
e quantità, è pure la produzione di biscotteria
da forno come i viscòtta di casa, tradizionali
nella foggia e genuini nel riispetto di semplici e antiche
ricette.
Ma su tutti di dolciumi, su
tutta la pasticceria, assurge a mito la cassata,
ormai famosa in tutto il mondo. Costituiva, almeno quando
veniva preparata solo per Pasqua, il punto di arrivo per
una degna celebrazione della festività.
Cassate grandi, piccole, cassatèddi di ogni
forma e dimensioni, tutte ben gonfie di ricotta addolcita,
decorate e impinguate con frutta candita e marmellata di
albicocca, ricoperte da glasse colorate. Quasi un obbligo
consumare per Pasqua le cassate (cu nnappi nnappi
cassatèddi i Pasqua), a meno di non essere
estremamente poveri: mischìnu cu nun manciàu
cassàti a matìna i Pasqua.
La cassata è il dolce
che in tutto il mondo immediatamente si identifica con la
pasticceria siciliana. La sua origine è un dolce
arabo, il quasat, una specie di zuccotto di
tuma fresca dolcificata con zucchero.
Non incontrando il gusto dei
siciliani, questi sostituirono dapprima la tuma con la ricotta
dolcificata, foderandola in un secondo tempo con pan di
Spagna. Bisognerà aspettare la metà del 1700
perché la cassata assuma la sua forma definitiva
e simile a quella attuale, con le decorazioni barocche realizzate
con canditi colorati, ad opera, così sembra, delle
suore del Monastero di Valverde in Palermo.
Dellantica tradizione
della cassata in Sicilia, fa fede un documento del Sinodo
di Mazzara del 1575 (capitolo XXI, pag.IV) dove si legge
che la cassata è uno dei dolci "immancabili
nelle festività". La preparazione casalinga
è teoricamente semplice, ma la bravura consiste nel
saperne armonizzare gli ingredienti.
Giuseppe Coria
(
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