UN CIBO DI NATALE
Nara Bernardi
Antonino
Pagliaro, uno dei più grandi linguisti italiani di questo
secolo, riferisce la "mancanza di stile" che caratterizza
l'epoca contemporanea alla incapacità di lavorare dentro
le "usate forme", e ciò in ragione di un "risentimento contro
la forma" che ha manifestazioni importanti nel campo dell'
arte e che sarebbe all'origine anche dell'attuale "decadimento
della retorica". Ai processi di omologazione e disautenticazione
indotti da questo appiattimento generalizzato delle forme
e delle parole, si contrappongono, in questa fase della
nostra storia, tratti culturali e stilistici ancora vitali
nelle società etniche e in quelle tradizionali dell'Occidente
europeo. I fatti culturali agiti (consumati o prodotti)
in quelle vere e proprie forme del tempo che sono le feste
concorrono a definire uno stile che non soltanto affonda
le sue radici nella cosiddetta identità della natura umana
ma si traduce in norme socialmente condivise dai gruppi
come dai singoli individui. La resistenza opposta dagli
elementi stilistici tradizionali è particolarmente evidente
in alcuni cibi, festivi come quotidiani, e non per ragioni
generiche. Come ha insegnato Alberto M. Cirese, "specializzazioni
culturali" diverse quali la modellazione figurativa dei
pani e la poesia di formazione e tradizione orale sono sostenute
sostanzialmente da una stessa grammatica: di forme, di valori,
di ritmi, per dirla con LeroiGourhan. I cibi tradizionali,
soprattutto festivi, sono per tali ragioni i luoghi in cui
precipitano forme e parole che consentono a intere comunità
di riconoscersi, di formare un proprio codice delle emozioni
estetiche, gustative, tattili, che occorre periodicamente
rinnovare. Il cibo di cui racconteremo preparazione e consumo
costituisce un caso emblematico di questi alimenti che contribuiscono
a definire lo stile di una comunità, proprio perché si tratta
di alimenti buoni da pensare (e da comunicare
aggiungeremmo) prim'ancora che da mangiare, secondo
una felice espressione di Lévi-Strauss.
All'interno
di questa categoria, i piatti che segnalano la festa, oltre
che esprimere i valori della comunità, rivelano all'esterno
della dimensione domestica le capacità di ciascuna massaia.
Nel nostro caso, come vedremo, questi elementi vengono esaltati
da una "ricetta" che, a partire dagli ingredienti di base
del quotidiano pane e companatico, porta a un piatto festivo
caratterizzato a un tempo dalla loro compresenza e dalla
esaltazione delle loro singole caratteristiche, nonché dal
loro uso esagerato. Ecco coniugati l'abbondanza e lo spreco
con la trasformazione dei cibi quotidiani per ribadirne
il valore essenziale. Il risultato finale di questa pratica
simbolica, prima che culinana, è .un piatto che appare come
una vera e propria iperbole del pasto quotidiano. Un'iperbole
che si concretizza, come vedremo, con le caratteristiche
del pasto unico su cui hanno richiamato l'attenzione gli
studi di Mary Douglas sull'alimentazione.
A
Bagheria, dove abbiamo compiuto la nostra ricerca, lo sfincione
è il piatto del menu delle vigilie più importanti nel ciclo
natalizio.
Qui,
come altrove, questo ciclo festivo si apre la vigilia dell'8
dicembre, giorno dell'Immacolata, e si chiude con l'Epifania.
Ci limitiamo a ricordare che l'8 dicembre è da considerarsi
data significativa nel calendario stagionale siciliano,
come dimostrano le numerose espressioni popolari che l'associano
all'inizio dell'inverno, e che il ciclo natalizio è caratterizzato
dal prolungamento delle ore di veglia notturna con il gioco
a cui si mescolano proprio quegli eccessi alimentari di
cui sfincioni e sfince sono parte.
Le
vigilie dell'Immacolata, di Natale, di Capodanno e della
Epifania, sono i giorni di preparazione e cottura degli
sfincioni. Il loro consumo si estende invece dalla cena
di queste vigilie a tutta la settimana successiva, giacché
lo sfincione senza salsa di pomodoro, quello considerato
più tradizionale nell'area della nostra ricerca, si conserva
bene: non muffisce e, secondo molti bagheresi, è addirittura
più buono il terzo giorno dalla sua cottura.
Perciò,
fino a non molti anni fa, ogni famiglia preparava molti
sfincioni che poi stipava in diversi angoli della
casa, preferibilmente a contatto con il pavimento, essendo
questo il luogo fresco ritenuto più adatto alla loro conservazione.
Fuori da questo ciclo festivo il consumo di sfincione
era inesistente. L'unica occasione in cui viene documentata
la sua presenza fuori dal calendario festivo è il fidanzamento,
secondo quanto riferisce Pitrè.
Nella
civiltà in cui viviamo anche lo sfincione è uscito dal tempo
mitico della festa per entrare in quello ordinario del consumo
indifferenziato: si compra pronto tutti i giorni dell'anno,
perfino nei mesi estivi, ancora considerati da tutti i meno
adatti per questo cibo "caldo", come viene definito in base
alle sue qualità nutritive, sempre associate a una laboriosa
digeribilità. Nella società tradizionale esso rappresentava
invece il profumo e il sapore del Natale; il profumo e il
sapore di quel cibo, salato e non dolce, era cioè connesso
in maniera peculiare a questo momento. Lo sfincione
diventava in tal senso elemento costitutivo e funzionale
di questa festa: era uno dei suoi segni.
Questo
fatto è tanto più importante perché l'essere peculiari esclusivamente
di una festa era, in Sicilia, più dei dolci che non dei
cibi salati. E' utile ricordare che in molti paesi la messa
della notte di Natale costituiva un'occasione in cui venivano
consumati in chiesa gli stessi cibi che segnalavano la festa
nella dimensione domestica.
Così, secondo
una testimonianza di Salvatore Salomone Marino, a Borgetto,
appena conclusa la messa della vigilia, parroco e devoti
più assidui banchettavano in sacrestia con sfinciuna,
pesce, vino, sfinci, scacciu e dolci, mentre
gli altri fedeli "mangiavano bellamente in chiesa".
Ebbene,
lo sfincione è da annoverarsi tra quei cibi che ogni comunità
elegge a rappresentanti della propria identità, stabilendo
con essi una sorta di dipendenza psicologica: i Bagheresi
ne parlano inequivocabilmente con un vocabolario e una mimica
facciale che denotano una forte partecipazione emotiva.
Inutile dire che gli sfincioni di casa propria e della propria
infanzia sono sempre i migliori, al punto che essi viaggiano
ancora verso il Nord per gli emigrati, e che si continuano
a fare in ogni panificio di bagherese che si rispetti, in
America e altrove. A Bagheria, la sera delle vigilie canoniche
per la cottura degli sfincioni, tutto il paese è
inondato dal profumo delle teglie che vanno e vengono. E
se il loro consumo appare fortemente diminuito nella cena
di fine d'anno, non lo è invece complessivamente per tutto
il ciclo natalizio.
Se
volessimo darne una definizione sintetica, potremmo dire
che lo sfincione è un pane condito; solo che è così condito
da diventare piatto, pietanza che racchiude in sé tutta
una cena, col solo accompagnamento di un contorno leggero,
di verdure "rinfrescanti" cotte o crude: cardi, giri, finocchi.
Questo
menu rigoroso si chiudeva con le sfince come dolce,
frittelle di pasta di pane ricoperte di zucchero, e vino
a volontà.
Lo
sfincione è quindi una pasta di pane, un pò più lievitata,
di forma circolare, condita prima di essere infornata con
gli alimenti che costituiscono il quotidiano companatico:
sarda salata, cipolla, formaggio e olio, condimento essenziale
e fortemente valorizzato nella cucina siciliana.
Ma
ciò che fornisce un'identità sua propria allo sfincione
è la mollica di pane: esso appare infatti come un pane condito
di pane, perché proprio la mollica costituisce l'ultimo,
e quindi immediatamente riconoscibile, strato di condimento.
E' necessario a questo punto conoscere la ricetta di una
delle varianti bagheresi dello sfincione, quella
considerata più tradizionale, almeno in questo paese. Appare
significativo che questa variante sia diffusa soltanto a
Bagheria, a differenza di Palermo e degli altri paesi del
Palermitano dove ingrediente fondamentale è la salsa di
pomodoro, ormai molto diffusa anche a Bagheria.
La
pasta, lievitata due volte e più morbida di quella del pane,
cioè più ricca d'acqua, viene schiacciata col palmo delle
mani, ma con un tocco leggero, perché deve rimanere abbastanza
alta e non essere troppo traumatizzata, per potere gonfiare
ancora un pò nel forno e cuocere bene. Su questa forma circolare
di pasta si conficcano tre sarde salate a piccoli pezzi,
oppure, secondo una variante più recente, si spalmano le
tre sarde preventivamente sciolte nell'olio sul fuoco. Il
secondo strato di condimento è costituito da fette di pecorino
fresco: tuma o primusali. Il terzo e ultimo
strato consiste di mollica mista a pecorino grattugiato,
cipolla appassita in padella, oppure, se scalogna, cruda
e finemente tritata, quindi un pizzico di origano e olio
nuovo.
Sulla
preparazione della mollica esiste tutta una serie di prescrizioni:
deve essere ottenuta per sfregamento, a mano, dall'interno
di grandi pagnotte rafferme, chiamate vastidduna pî sfinciuna,
comprate a tale scopo tre-quattro giorni prima.
Non
dev'essere cioè pan grattato, perché risulterebbe troppo
secco, e perché contenendo anche la crosta non conferirebbe
più allo sfincione quella "bianchezza" che è una delle sue
caratteristiche distintive.
Altre
qualità peculiari di uno sfincione sono la sofficità,
opposta alla compattezza che in Sicilia era il requisito
d'obbligo di un buon pane, e l'assenza di crosta in superficie,
che si ottiene ungendo continuamente i bordi prima dell'infornatura.
Gli sfincioni vengono innaffiati con accanimento
d'olio, il cui spreco è un segno, tra gli altri, dell'eccezionalità
di questo momento festivo. Come appare evidente, lo sfincione,
pane condito che diventa pietanza, nelle vigilie delle feste
del ciclo natalizio, si sostituisce al pane quotidiano e
si oppone a quest'ultimo in ogni sua caratteristica.
A
Bagheria esistono ancora due forni a legna che risalgono
alla seconda metà dell'Ottocento.
Sono
grandi forni circolari con volta a cupola, nati certamente
come forni pubblici. Essi hanno la stessa tipologia romana
diffusasi poi in tutta Europa. Tra le rovine di Solunto,
a pochi chilometri da Bagheria, ce n'è uno romano in tutto
simile a questi da me documentati, che sorgono nell'area
del primitivo insediamento della Bacarìa. Il paese attuale
nasce subito come grosso insediamento nel Seicento, e il
nucleo a più alta densità umana è già alla fine del Seicento
quello attorno al caseno dei Branciforti.
A
Bagheria gli sfincioni, tutti gli sfincioni,
cioè non solo quelli venduti pronti dai fornai ma anche
quelli preparati da ogni singola massaia, si cuociono nei
forni pubblici. Fino a trenta-quarant'anni fa, c'erano alcune
case dotate di forno a legna, dove le vicine andavano a
cuocere il proprio pane e, in periodo natalizio, gli sfincioni.
Veniva pagato un compenso ai proprietari, che assolvevano
al ruolo di fornaio limitatamente alle operazioni di infomnatura,
giacché la farina veniva impastata e spesso anche portata
da ciascuna donna.
Quest'uso
collettivo dei forni domestici ha prolungato fino alla metà
del nostro secolo le stesse modalità di uso collettivo dei
grandi forni pubblici, praticate fino ai primi anni del
Novecento.
Si
ha ancora memoria a Bagheria di questa operazione collettiva
di impasto compiuta dalle donne nella grande madia del forno:
una accanto all'altra, ognuna lavorava la propria pasta
e confezionava il proprio pane. Dopo la lievitazione, il
fornaio si occupava della infornatura.
Allo
stesso modo avveniva la lavorazione della pasta degli sfincioni.
E' stata l'introduzione delle impastatrici meccaniche a
segnare la fine di quest'uso collettivo dei forni.
Come
abbiamo visto, la preparazione della pasta non è più compito
delle donne, le quali preparano invece la "mollica condita",
detta cuonza, nelle loro case e si trasferiscono
poi al forno. La cottura è infine compito tradizionale del
fornaio, che se ne assume ogni responsabilità nel caso di
incidenti.
E'
tanto più sorprendente oggi rivedere i forni del paese,
anche quelli nuovi, elettrici, scintillanti di luci e arredi,
traboccanti di gente affaccendata, e disseminati di pentole,
barattoli, bottiglie, coltelli e mestoli: tutto l'armamentario
necessario a condire la pasta. Viene così ripristinato in
quest'occasione quell'uso collettivo dei luoghi di panificazione
che abbiamo ricordato. I forni più frequentati per questo
tipo di preparazione restano comunque quelli a legna, giacché
non soltanto conferiscono agli sfincioni il profumo
del legno di limone o delle fascine di ulivo, ma ne permettono
la cottura direttamente sui mattoni; mentre in quelli elettrici
è necessario informare dentro le teglie per evitare che
lo stesso impianto del forno possa essere danneggiato dal
versamento di olio. L'effetto finale di questi due tipi
di cottura è radicalmente diverso, e quella tradizionale
è generalmente ritenuta migliore: la crosta inferiore risulta
naturalmente un pò più croccante o dura, a seconda dei punti
di vista, ma profumo e digeribilità sono incomparabilmente
superiori a quelli degli sfincioni che "friggono"
nelle teglie dei forni elettrici.
Nei
forni a legna si avvicendano centinaia di persone, talvolta
dalle cinque del mattino alle sette di sera, per infomate
successive, in cui ciascuno sceglie il proprio turno. Se
a ciò si aggiunge che ogni infornata è di 35-40 sfincioni,
si avrà un quadro della confusione, dell'accelerazione dei
ritmi di lavoro in alcuni momenti e anche della fatica dei
fornai. In simili circostanze, questi luoghi diventano osservatori
etnolinguistici di grande interesse, perché tutti i comportamenti
generalmente assunti durante il consumo di un pasto festivo
comunitario vengono in questo caso amplificati nel momento
della preparazione di questo cibo, che avviene appunto alla
presenza della comunità, in un luogo pubblico.
Un
indice, fra gli altri, della ricchezza di questa situazione
comunicativa è l'esercizio costante di un linguaggio figurato,
che ha una sua dimensione di langue e una di parole.
Ricorderemo solo che, oltre le varianti innovative rispetto
alla ricetta base, che vedono la presenza di cavolfiore,
patate o pomodori pelati sull'ultimo strato di condimento,
ne esiste una tradizionale, largamente diffusa, la cui denominazione
canonica è costituita da due metafore usate con grande divertimento:
nfigghiulatu e u figghiu latru. La prima espressione
significa letteralmente "con un figlio dentro" ed è comunemente
riferita anche a frutta e ortaggi che presentino all'interno
o a fianco frutti di dimensioni ridotte. La seconda, "il
figlio ladro", evoca tutto l'immaginario relativo al figlio
che sottrae e nasconde cibo, proprio di un'economia povera.
Siffatto linguaggio figurato costella tutte le azioni compiute
durante la preparazione degli sfincioni, e indica
oggetti, ingredienti, o quant'altro venga usato fino al
momento culminante, quello in cui si sfornano chiamandoli
ad alta voce: agghia, aliva, nuci, rramuzza, pani, scorza,
termini corrispondenti al signali posto da ogni donna al
centro dei suoi per poterli distinguere dagli altri.
Lo
sfincione, dunque, in queste cene si sostituisce
al pane quotidiano e di fatto si oppone ad esso in ogni
sua caratteristica. In realtà, di pani di Natale è piena
l'Europa, non stupirà quindi trovare in Sicilia un cibo
che esemplifichi quelle opposizioni molto lievitato/compatto,
bianco/nero, che sono una costante diacronica, oltre che
diatopica, documentata sin dall'antichità.
Nara Bernardi
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