LE VECCHIE DI NATALE
Fatima Giallombardo
Viviamo
in un tempo caratterizzato da mutamenti e da effimere quanto
inconsistenti forme di memoria individuale e di gruppo.
Comportamenti
in rapida evoluzione, disancorati dal peso delle tradizioni,
connotano anche il vissuto sociale della nostra Isola.
Nei
suoi contesti tradizionali tuttavia si manifestano momenti
di consapevole resistenza a una "modernità" che, per essere
consumabile, ha bisogno di negare immagini troppo forti
o durature della propria identità. In tale orizzonte ideologico,
del resto, il folklore è stato fatto oggetto di una crescente
promozione turistica, caratterizzata da visioni estetizzanti
e superficiali, adeguate a non "lasciare il segno" nel vasto
e variegato pubblico dei fruitori. Di segni invece
radicati e tenaci, perché elaborati collettivamente in tempi
lunghi e atti a sfidare i cambiamenti, è composta la cultura
dei siciliani che vivono e lavorano nei rioni e nei mercati
popolari delle città o dei piccoli centri.
Il
valore di questi segni costruttori di memoria non appare
oggi soltanto campo delle analisi di storici e antropologi.
Sempre più forte si pone l'esigenza dei ceti tradizionali
di autorappresentarsi come detentori di un patrimonio di
pratiche cerimoniali, ludiche ed ergologiche che hanno fatto,
insieme ad altre, la storia della Sicilia. In questa dimensione
le feste si ostentano, più che in passato, come luogo privilegiato
per l'esercizio di molteplici negoziazioni dell'identità
locale. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che
esse costituiscono i serbatoi più ricchi di un sapere in
grado di qualificare ancora attori e partecipanti di fronte
alla comunità. Oggi l'esigenza mediatica di "stare sulla
scena" genera alcune delle dinamiche di cambiamento cui,
a livello di superficie, le feste sembrano sottoposte. Viceversa,
la stessa natura pubblica e comunitaria dello spazio in
cui annualmente esse prendono forma condiziona il permanere
delle loro strutture profonde.
Esiti
di una prassi dalla lunga durata, le celebrazioni tradizionali
rispondono a quel bisogno di produzione simbolica e di orientamento
collettivo nella realtà che sono alla base di ogni cultura.
Grazie
alle loro stratificazioni semantiche, le feste comunicano
esperienze fondamentali sul mondo: la sua rigenerazione,
il suo rinascere secondo processi di ciclica ripetizione.
Se anche i contesti storici ed economici, preagrari e agrari,
che le hanno generate dovessero diventare solo un referente
ormai inconsapevole, il senso del rinnovamento perenne
della vita (cosmica e umana), trasmesso attraverso le immagini
festive, continuerebbe a svolgere le sue funzioni fondanti:
di propiziazione del futuro, di sconfitta incessante della
morte.
L'intenso
impatto emotivo e simbolico delle liturgie tradizionali
rende conto quindi del loro permanere e anzi del loro moltiplicarsi
nella società attuale, dominata dalle macchine. Il tempo
della festa apre infatti a una dimensione speciale dell'esistere,
in cui il corpo, il cibo, il dono divengono elementi di
un diverso codice di accesso alla realtà, al sacro. Così
è in Sicilia nelle feste di tutto il ciclo annuale, in cui
l'albero o la spiga, le fave verdi, gli agrumi e i pani,
che adornano i simulacri recati in processione o le tavole
votive dedicate ai patroni, alludono ancora alla "verità"
dell'eterno ricominciamento dei cicli stagionali e vitali.
Come le numerose maschere, in forma animale (l'Orso
di Saponara e il Cammello di Casalvecchio, in prov.
di Messina; il Serpente di Butera, in prov. di Agrigento)
o di demoni agrari (il Foforio di Mezzojuso e i Diavoli
di Prizzi, in prov. di Palermo; i Giudei di San Fratello,
in prov. di Messina, il Nardu di Sant'Elisabetta,
in prov. di Agrigento) che continuano a proporsi come segni
della potenza rigeneratrice della natura. Non diversamente,
per il valore sacrale connesso al cibo (ricettacolo di energie),
il consumo di grandi quantità di alimenti caratterizza in
chiave augurale le celebrazioni festive. L'abbondanza goduta
collettivamente, anche attraverso i circuiti cerimoniali
del dono fra parenti e amici, fonda e rinsalda la solidarietà
sociale.
In
tale universo ideologico, non è un caso che le donne assumano
uno statuto particolare. In quanto procreatrici, esse sono
associabili infatti sul piano simbolico alle forze cosmogoniche
- il seme, l'uovo - e agli emblemi della vita potenziata
espressi dall'abbondanza alimentare e in genere dalla ricchezza.
Così i loro compiti rituali, tra cui le questue di cibo
e denaro effettuate per soddisfare un voto, insistono sul
modulo centrale del potere degli alimenti, del valore della
nutrizione e della continuità sociale.
La
simbologia arcaica incentrata tenacemente sulle immagini
della fecondità e del rinnovamento, ancora oggi ovunque
attestabile in Sicilia, giustifica quindi la ridondanza
dei tratti comportamentali e simbolici che caratterizzano
l'intero ciclo calendariale. In modo emblematico consente
di cogliere il significato profondo di certe figure femminili
che ritornano anno dopo anno nello scenario delle celebrazioni
natalizie e, sia pure residualmente, nel panorama di molte
altre feste.
Esse
appaiono nelle drammatizzazioni di fine-reinizio di un ciclo.
Vecchia, Vecchia strina, Strina, Vecchia di Natali o
di Capudannu, Carcavecchia, Nunna vecchia sono le denominazioni
locali più comuni di una maschera, un tempo presente in
tutta la Sicilia nelle notti del 24, 31 dicembre e 6 gennaio
e nel periodo di Carnevale-Quaresima, in cui assumeva la
denominazione di Nanna, Sarramònica o Coraìsima.
La Vecchia appare correlata alle strenne e, oggi
in modo privilegiato ma non esclusivo, ai bambini. Condivide
ovviamente la sua identità profonda con la più nota Befana
(Tufània) apportatrice di doni e paurosa abbastanza
da competere con lei nell'elargizione di carboni neri quanto
le colpe dei piccoli disubbidienti.
La
Vecchia ha però qualcosa in più. Se giunge di notte
non lo fa sempre silenziosamente, anzi il suo arrivo è caratterizzato
da frastuoni assordanti realizzati con gli strumenti più
vari (corni di bue, cerbottane e buccìni di mare, campanacci,
padelle, pentole e casseruole), da grida acute e da fischi
da abisso infernale. Così era a Mezzojuso, quando la sera
del 24 dicembre irrompeva il fantoccio di una vecchia grinzosa
e lacera, o ad Alia (Pa) dove un uomo travestito, con bisaccia
a tracolla e rocca e fuso in mano, veniva annunciato dal
chiasso provocato da zufoli e tamburelli.
Piuttosto
che essere "ignorata" dagli ansiosi destinatari dei suoi
regali, come la Befana (pena il castigo!), la Vecchia
ama essere chiamata a squarciagola, anzi invocata e richiesta
di doni. A Isnello (Pa) la notte del 31 dicembre i contadini
questuavano infatti alimenti di porta in porta secondo una
formula tradizionale che evidenziava nella Nunna vecchia
la vera fonte delle elargizioni. La stessa Nunna
ama del resto raccoglierne per le strade, come avveniva
ad Alia o a Gratteri (Pa) dove, fino agli anni Sessanta,
la notte di Capodanno tante erano le Vecchie che
giravano nei quartieri per richiedere cibi. Oggi è la maschera
che cavalca su un asino, in mezzo a un corteo rumoroso,
a lanciare sulla folla caramelle, dolci tipici e frutta
secca acquistati dalla Pro Loco. Il corteo è sicuramente
uno dei tratti costanti dello scenario rituale in cui questa
figura prende forma.
Ad
accompagnarla sono sempre brigate di ragazzini e giovani
che la tradizione vuole siano suoi figli, "i figghi dâ
Strina". A Strina, a Strina! è del resto la formula
intonata da svariati gruppi di monelli, un tempo anche di
adulti, che vanno in giro a questuare dolci, frutta secca
e denaro, ammassati in un paniere o in un sacco per una
scorpacciata finale.
Con
la sua controfigura mitica - la Befana - la Vecchia
condivide però alcuni tratti. Ama sbucare, da Natale all'Epifania,
da grotte, monti, castelli dirupati, guidando carovane di
muli carichi di beni (rètini) che poi distribuirà.
Il suo aspetto ugualmente pauroso - malgrado l'allegria
con cui viene accolta - è reso minaccioso, con più pregnanza
di quanto non facciano i dispetti o le punizioni della Befana,
dalla credenza che una volta le Vecchie filassero
lunga o breve, a seconda dei comportamenti, la vita degli
umani.
Un
pò benefattrici, un pò Parche dunque le Strine siciliane,
che con tante altre entità consimili, più antiche e recenti,
mediterranee ed europee, condividono statuto e funzioni
simboliche. La loro contiguità con il tempo e lo spazio
liminari (le notti, i luoghi selvaggi), con i frastuoni
caotici ma festosi, con i colori della morte (il bianco
o il nero dei loro mantelli) ma anche con gli odori della
vita (i cibi e i dolci speziati elargiti in dono), queste
portatrici di strenne (da qui la nostra strina e
la strenua dei Romani) alludono all' eterno trascorrere
dell'anno dalla fine all'inizio, dalla chiusura alla sua
augurale riapertura.
Le
modalità qualificanti queste maschere, le cui azioni festive
non debbono essere scisse dal sistema di credenze ancora
oggi radicato nell'immaginario folklorico, rimandano all'orizzonte
simbolico della Grande Dea, figura antropomoffizzata dell'intera
natura che in sé contiene vita e morte e il loro reciproco
generarsi. I segni di questo codice antichissimo ma continuamente
rifunzionalizzato, che traducono l'esperienza di un "principio"
vitale perennemente riproducentesi, appaiono imperniati
sulla divina facoltà di stimolare e distruggere ciclicamente
la crescita, l'abbondanza, la varietà delle forme naturali.
Fertilità e ambivalenza connotano dunque l'antica Dispensatrice
in una dimensione simbolica che ne ha rappresentato, durante
un tempo lunghissimo, i volti cangianti e molteplici e il
patrocinio su ogni aspetto dell'esistente. Ecco perché assumono
ancora oggi valore di propiziazione le pupe e pupidde
di pasta o di zucchero donate e consumate in Sicilia nei
rituali funebri, da Natale a Capodanno o in alcune feste
patronali, in prossimità della conclusione-ricominciamento
di un ciclo. Le bambole di pasta in sembianze giovanili,
le Vècchie cariche di alimenti, questuati o tratti
dalle viscere della terra, veicolano il medesimo significato:
assumere in sé o ostentare nello spazio socializzato il
principio procreatore per eccellenza, il principio femminile
(anche quando paradossalmente a rappresentarlo nella scena
rituale è un uomo, come avviene tuttora a Gratteri).
La
Vecchia di Natale - tempo di ogni rinascita - coniuga
dunque l'aspetto fecondante della moltiplicazione, grazie
alla sua associazione con la copiosità alimentare, e quello
dell'esaurimento energetico, tramite la sua figurazione
di Anziana. Vecchia i Natali mancia pira cotti! si
gridava infatti a Ciminna per enfatizzarne la bruttezza
e la mancanza di denti.
Donatrice
di vita, essa è anche regolatrice dei destini, nel suo aspetto
di Parca. Se condivide quindi con la Befana, Babbo Natale,
San Nicola e i Morti, sue controfigure più o meno addomesticate,
lo statuto di antenata apportatrice di beni, il sistema
di credenze e di leggende ancora attuale in Sicilia ne denuncia
qualità più complesse e totalizzanti. Non è un caso che
l'aspetto "materno" della Strina venga tuttora marcato
dalla rappresentazione che rende suoi figli, numerosi e
anonimi (una vera folla!), coloro che evocandola richiedono
e ottengono doni (come a Vicari e a Isnello).
Lo
stesso formulano tipico dei questuanti continua a correlare,
sia pure in chiave ludica, la sua figura con l'idea della
procreazione.
A
Calamonaci (Ag), le strofe intonate dai bambini durante
i giri di raccolta contengono maledizioni e invettive, per
coloro che non manifestano la dovuta prodigalità, anche
a sfondo sessuale.
Così
essi cantano di porta in porta: La strina, la strina
/ la bedda matina. // S'un nni dati un cicireddu / vostru
maritu cci cadi l'aceddu. // S'un nni lu dati ora ora /
vostru maritu vi ietta fora.// La strina! Buon anno!
(La strenna, la strenna / la bella mattina. // Se non ci
date un cece [metaforico per "piccolo dono"] / a vostro
marito cade l'uccello. // Se non ce lo date subito / vostro
marito vi butta fuori. // La strenna! Buon anno!).
Strina
e contemporaneamente stria (strega), questa maschera rituale
perpetua ancora (insieme ad altre) un linguaggio cerimoniale
in cui, tra augurio e minaccia, la vita continuamente si
celebra, la morte si sconfigge.
Fatima Giallombardo
(
TORNA
ALL'INDICE DEGLI ARTICOLI )
|