LA
“MARINA” DI MAZARA DEL VALLO
Lorenzo Greco
fotografie di Nino Giaramidaro
Nelle
campagne a ridosso della città, appena un filo d’acqua
fra rocce calcaree scavate da millenni: è il Mazaro.
Vederne il riflesso di luce magari in una pozza fra 1’erba
è fortuna rara anche d’inverno, tanto scorre
insinuato nell’aspro letto che la vegetazione selvatica
pare soffocare, quasi potesse bersi tutta la povera acqua
che laggiù infossata langue, letto eroso nel fianco
di. sponde scoscese, a volte erte, a volte allargate in
ampie grotte in parte franate, dove antichi culti di Cristo
si nascondevano dalle persecuzione pagane. Miragliano si
chiamano da sempre queste sponde, giardino dell’Emiro
nel bel nome di un tempo, quando il regime delle acque sarà
stato più generoso di tutta l’aridità
di oggi che stringe l’anima. Luogo — un tempo
non lontano — di scampagnate e di feste agresti, rituali
come per il lunedì di Pasqua. E si immaginano giardini
di aranci e limoni, melograni e frutta deliziosa che un
tempo certo vi cresceva rigogliosa. Poi nel percorso di
appena poche centinaia di metri, d’un tratto il Mazaro
si allarga, si fa placido fra canneti prima vicini per le
due sponde che si toccano, e che infine si allargano decisamente,
imprevedibilmente. Il corso d’acqua dolce per miracolo
si fa ampio: e qui, sulla sponda sinistra, è cresciuta
in antico la città. Non è ormai lunga la corsa
al mare: ancora poche centinaia di metri perchè il
fiume vada a confondersi nel Mediterraneo. Ma c’è
lo spazio per una breve e larga curva sulla sinistra, e
ora prendendo la dirittura appena a destra, si vede bene
il mare che spumeggia spinto dal soffio gagliardo di scirocco.
L’acqua è profonda, già si mescola con
quella salata. Ora il fiume si offre a chi viene dal mare
come un canale calmo e sicuro per l’ormeggio: un porto
ideale per il ricovero anche d’inverno. Questo era
il confine fra Fenici e Greci, qui Selinunte rideva in faccia
a Cartagine. Si contrastavano le due civiltà, ma
entrambe le marinerie qui trovavano placido ricovero. Questa
ansa, dove il Mazaro ancora di più placa la sua corrente
e il mare non entra, è il cuore antico della vita
della banchina, questo luogo si chiama la Marina. Qui è
sempre stato il mercato del pesce.
Qui ancora oggi si sbarca il prodotto della pesca locale,
costiera. Il molo e l’adiacente piazzetta hanno un
lastricato di ampie balate di pietra levigata e scivolosa.
Qui, a ridosso del bordo della barca, o sotto la prua, da
dove il marinaio le mostra ai primi curiosi e le passa al
compare che di slancio le fa scivolare in terra e le sistema,
le cassette del pescato vengono stese in bell’ordine
in file più o meno larghe, più o meno colorite.
Tutto qui parla di buona e cattiva sorte, di benessere e
povertà, di fatica e di forza di braccia, di sonno
perso e di sale che brucia le membra. E di gioia: la gioia
della ricchezza che il mare tiene in serbo per chi vi si
dedica senza risparmio di sè. E tutto all’intorno
pare intriso di allegria e di quell’odore pungente,
profumato o nauseante, di alghe e di interiora: mura e tetti,
mani e occhi ne sono segnati. E nei vicoli vicini si spande
e si allarga. Non ci sono orari nè stagioni speciali
per 1’arrivo delle barche. Ne arrivano sotto il sole
caldo, o ai primi segni di burrasca, giorno e notte, prima
e dopo il vento di scirocco che tutto travolge nel freddo
delle folate saline e nella nostalgia di terra. Si vedono
arrivare, quasi misteriose e sacre creature che hanno visto
il pauroso volto del marinai, che hanno frequentato i confini
del vivibile, sondato le profondità sconosciute,
scampate ai venti, rifiutate dall’abbraccio terribile
del dio di lu mari funnutu, quello che perseguitava Ulisse.
Ma in partenza non se ne vedono mai. Escono una alla volta,
come alla spicciolata, alle ore di notte, nessuno le vede.
E a notte dalle case escono i marinai silenziosi, le mani
nelle tasche, la sigaretta accesa all’angolo della
bocca, si chiamano l’un l’altro dalle finestre
e dai cortili, con richiami pieni di silenzio. Si ritrovano
sul molo, con un salto s’imbarcano, e la notte marina
di pioggia e di malotempo li inghiotte nello stantuffo maleodorante
del diesel cui si affidano ciecamente.
E'
cambiata la marina nei decenni. Cambiano i metodi di pesca,
le reti, la potenza dei motori, e così pure cambia
il mercato. Oggi le grandi barche restano anche decine di
giorni fuori, e la vendita la si fa via radio. A terra il
pescato in buona parte quasi non si ferma. A qualsiasi ora,
appena il peschereccio attracca, grossi camion frigo si
accostano, rapidamente decine di cassette dal ventre della
nave passano nel buio freezer della macchina, e subito partono
— magari tramite aereo — per mercati lontani.
Questo ormai —senza contrattazioni apparenti —
è il vero mercato. Il traffico dei camion e il via
vai dei pescherecci è divenuto frenetico e avviene
lungo tutto il porto-canale e nel nuovo possente molo di
recente costruzione. Il pesce quasi non è più
possibile vederlo.
Un tempo invece affluiva tutta qui, sulla piazzetta della
marina, la ricchezza donata dal mare. Ancora si ricorda
nel dopoguerra l’era dei gamberi. Un’infinità
di gamberi veniva raccolta — grazie anche alla forzata
pausa imposta dagli eventi bellici il mare era una vera
cornucopia — e a montagne venivano portati alla marina,
ed era così copiosa quella messe che non si poteva
quasi venderla. Il gambero aveva perso ogni valore: mancavano
i frigoriferi adeguati, il congelamento era ai primordi
e non di rado, dopo un soggiorno nella piazza, il gambero
finiva gettato, non di rado se ne ritornava a morire in
mare da dov’era venuto. Ricordo come i pescatori dilettanti,
che fin dal pomeriggio prendevano posto lungo la riva sinistra
del porto canale, dove per molte ore in lunghe file di compagni
seduti sulla balata della sponda stavano a frugare con le
lenze e le canne fra il fondo melmoso dove scivola l’anguilla
e luccica il cefalo, passavano dalla marina e quasi gratis
si portavano via un cartoccio di gamberi da usare per esca.
Ricordo il nonno che da quel cartoccio attingeva e un pò
innescava l’amo, e un pò cruda com’era
portava alla bocca quella carne bianca e soda.
Il gambero, poi divenuto più raro, non è mai
mancato. Quando in autunno viene la stagione del gambero
rosso, il più saporito, il più ricco, pieno
di polpa dolcissima nella testa, la gente lo aspetta con
gioia e la voluttà delle feste, come nelle campagne
si farebbe con l’uccisione del porco, o con la svinatura.
E poi c’è quel gesto ormai inconsapevole, semplice
e spontaneo: ogni venditore mentre aspetta e magari anche
parla col possibile cliente, muove le mani a sgusciare e
decapitare i gamberetti, quelli più piccoli e bianchi,
e ne fa un roseo mucchio mentre le fragili scorze aumentano
di volume ai suoi piedi. E nelle vie adiacenti, si vedevano
spesso — e chissà se ci sono ancora —
famiglie intere di donne e bambine che facevano lo stesso
lavoro nelle stanze buie aperte sulla strada. Sgusciavano
gamberi per i commercianti. Poi questa merce entrava nei
congelatori, per le insalate e le fritture chissà
di quale consumatore. Sotto pensiline e davanti a banconi
di marmo, i venditori curano il boro bene, adornandolo di
alghe profumate e come vezzeggiandolo, decantandolo, lo
spruzzano di acqua con gesti religiosi. E ci sono i commercianti
più solidi, che hanno belle triglie e totani iridescenti,
scampi e orate, merluzzi e spigole. Pure i poveri, spesso
anziani che non hanno nemmeno un posto, in un angolo di
marciapiede cercano di farsi la giornata.
Disperazione di chi stringe il pesce più scadente
fra le dita, offrendolo come l’ultima possibilità
di un giorno che più avaro non potrebbe essere, come
ieri del resto, o 1’altro ieri, e tutti i giorni passati.
E anche il futuro — dicono quei pesci vivi e taglienti
di luci acuminate: vopi (voghe) per lo più —
impara troppo bene dal passato che non c’è
gioia, perchè non può esserci mai, e nessuno
l’ha mai conosciuta, che per i forti non c’è
che la calma consapevole accettazione del destino, solo
i deboli si abbattono e si lasciano cadere. E il richiamo
ruvido e irato delle voci del venditore, urlate con fierezza
indomita, non si rivolge al curioso spaventato acquirente:
benchè lo si chiami, benchè gli si mostrino
le branchie sanguinolenti, le code attorte gelide, fra i
frammenti granulosi di ghiaccio, che ti rimandano tutto
il freddo delle livide albe tagliate dagli spruzzi e dal
vento. Quei richiami sembrano bestemmia per la forza che
scagliano in faccia al cielo chiunque là vi sia,
ma sono solo rito apotropaico per scongiurare la fame e
la sorte. Povero l’acquirente, povero il venditore.
Fra i due il pesce rimpiange le turbinose correnti libiche,
le scoscese praterie dell’Isola Ferdinandea. Ha l’aria
indifferente di chi non può nemmeno capire dov’è
finito, ma stava meglio prima.
Pegno estraneo a un perpetuo discorso sulla vita che riguarda
solo gli umani e il loro atroce potere su tutta la natura.
E alcuni sembrano ripensarci, in un impeto di ribellione
inutile: ci ripensano e sbattono le code e le teste, le
pinne e le branchie palpitanti.
Ma quando il banco è ricco e il venditore ha avuto
da tempo la fortuna dalla sua parte, allora campeggia elegante
il pescespada, che nello stretto a Reggio chiamano il pesce
cavaliere per il rango nobiliare che gli conferisce la luminosa
spada, e ancora di più il coraggio e la fierezza
nella lotta, e la fedeltà alla sposa, prima di cadere
nobile combattente vinto dal ferro dell’uomo. E si
erge il grosso tonno rosso, che spande il suo sangue in
terra nella piazzetta. Ma sempre più piccoli sono
oggi i pescespada che per sventura incappano nelle reti,
e cosi finiscono sterminati prima di raggiungere l’età
adulta; e sempre più rari i grandi tonni nostrani,
perseguitati dalla caccia tecnologica dei giapponesi che
non danno loro pace fino alle nostre coste. E del tonno,
a raccomandarsi al pescivendolo, si può avere eccezionalmente,
oltre alle uova, il lattume,che si mangia appena bollito
a fettine, con gocce di limone. Rarità prelibata,
alla pari delle uova del pesce San Pietro. C’è
qualcuno che li vende questi doni saporitissimi del mare,
congelati in bicchierini di plastica: e in pochi minuti
diventano condimenti di eccezionale virtù per la
pasta di casa. Ma la regina di questo mercato è sempre
stata la triglia: colorata quella di scoglio, più
bianca e con più tenui baffi quella di fondale sabbioso:
ma fresche e gustose tutte, e di eccezionale sapore. E poi
il trionfo delle varietà delle razze (raja), grandi
e tagliate a trance, piccole o piccolissime che si fanno
fritte, in porzioni di un solo boccone. E ancora l’occhio
del visitatore si affascina a vedere le diverse specie dei
piccoli squali commestibili: il cannolicchiu — più
conosciuto come gattuccio —, che si mangia specie
a Natale in un piatto rituale affogato con il cavolfiore.
0 il bianco e tenero palombo. E altri, maculati, di sorprendenti
colori verdi, gialli, grigi. E i rarissimi granchi a volte
agitano le chele su bancone, glii aranci che non dovrebbero
mancare in un cuscus che si rispetti.
Raramente — perfino in passato — si trovavano
gli oggli, o ogghi, a mare: non ricordo il nome scientifico
che li collega alla famiglia delle attinie, e pochi li conoscono.
In verità non si comprano, ma si raccolgono in pochi
rari posti che bisogna conoscere. La giornata prima di tutto
deve essere calma, il mare fermo come l’olio: come
l’olio dove verranno fritti. Coglierli bene è
facile. Una volta se ne trovavano moltissimi. Crescevano
bene nella sabbia un po’ molliccia, bastava affondare
le dita e se ne venivano via puliti, in una piccola nube
di motiglia che subito si depositava a fondo. Anche fra
i cespugli di posidonia, la bella pianta dai lunghi e tenaci
capelli verdissimi, crescevano bene ed era facile staccarli.
Poi il nuovo porto ha spostato verso la Tonnarella l’inquinamento
portuale, e ora un arco di protezione è stato gettato
in mare a chiudere uno specchio d’acqua un giorno
limpidissimo e oggi non si sa più che sia, se porticciolo,
stagno lagunare, deposito costiero di scarichi. Finalmente
l’area è stata risanata, però gli ogghi
a mare —vero indicatore biologico — qui non
ci sono più.
Si trovano in altri punti, intatti e sani. Si cerca nell’acqua
bassa, fra pietre, alghe e rena: se ne raccolgono di tutte
le grandezze. I piccoli sono più buoni da mangiare,
ma danno minore soddisfazione alla raccolta. Con un sacchetto
in una mano e i piedi protetti da vecchie scarpe o sandali
di gomma, si cammina una o due ore curvi a scrutare il fondo,
e spesso si rischia la scottatura da raggi solari. I tentacoli
sono urticanti, specie i bambini e chi non è pratico
rischia di riempirsi di bolle dolòrose se anche un
frammento di peduncolo tocca la pelle. A casa vengono sciacquati
in acqua dolce, poi scottati nell’acqua bollente,
infine passati nella farina e gettati a friggere nell’olio.
Prendono la consistenza delle cappelle di funghi porcini
fritti col cervello e le animelle. Ma il sapore è
un concentrato di aromi marini: come dire bocconcini croccanti
e spumosi di alghe e aragosta, di funghi e ricci di mare,
di erbe di campo e di polpa di granchio.
La spinta della crescita è stata potente. Siamo ormai
a molte centinaia di pescherecci, con almeno una mezza dozzina
di uomini di equipaggio ciascuno, e un indotto a terra molto
vasto. Per questo la marina ha esaurito la sua funzione
pluricentenaria di ombelico dell’economia complessiva
del pesce. Ma rimane il centro di tutto il commercio al
dettaglio, e qui soltanto trovi la massima gamma di profumi
e di colori, di varietà e di allegria, dal piccolo
merluzzetto alla grande cernia, regina dell’abisso.
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di Marcella Croce
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di Pino Correnti
ELENCO
DEI MERCATI E DEI MERCATINI IN SICILIA
Testi
e Foto tratti da
"La Sicilia Ricercata" n° 8
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